3 cose che ho capito accompagnando un morente

Apr 20, 2023

Foto di Alexander Grey su Unsplash

Quattro giorni prima di morire, mio padre ha voluto lasciare l’ospedale nel quale si trovava.

Il medico fu chiaro: non vuole più stare qui ma le dico che è in fase preterminale e che non potrete gestirlo in casa. I dolori saranno molto forti: cercate di considerare seriamente di portarlo in hospice.
Conoscevo il desiderio di mio papà di morire a casa, accanto a sua moglie che lo aveva accompagnato per la maggior parte della sua vita, così mi sono ricordata che nei momenti di forte paura, rabbia, dolore, euforia bisognerebbe evitare di prendere decisioni. “Vedremo man mano” gli ho risposto. Con la consapevolezza che se fosse arrivato quel momento, il momento in cui non avremmo più potuto aiutarlo, l’avrei accompagnato in hospice (questa risposta, sul momento, mi è costata tanta paura e anche un po' di angoscia. Ciò che mi ha permesso di prenderla è stata la mia preparazione sulla tematica e lo studio che porto avanti da anni. Non sarei riuscita ad essere così lucida se non avessi saputo le cose che so. Quindi, se hai preso una decisione diversa dalla mia, non sentirti in colpa: in questo blog ti sto raccontando la mia esperienza per condividere e farti sapere 1. che ho avuto difficoltà anche io nonostante la mia preparazione 2. che siamo più capaci di quanto pensiamo, anche in queste situazioni 3. che parlare di queste tematiche, al di là delle esperienze personali, è importante per non sentirsi soli e impreparati)
Quando l’ambulanza l’ha riportato da noi non sapevo (non sapevamo) bene cosa fare:
aveva bisogno di supporti medici e poi? Avrebbe fatto delle domande? Avrebbe chiesto se stava per morire? Avrebbe davvero sofferto così tanto?

E soprattutto: cosa e come avremmo potuto aiutarlo?

1. Ho capito che lui sapeva molto più di quello che gli avevano detto

“Alice aveva un cancro ai polmoni. Era stata al reparto di cure palliative del of St. Paul’s Hospital a Vancouver per molto tempo e sentivo di conoscerla bene.

Ogni giorno mi documentavo sul suo dolore al petto. Era normale che avesse un tale dolore al petto perché aveva un cancro al polmone non trattabile, non operabile. Ma di solito riusciamo a controllare il dolore dei pazienti tramite i farmaci.Il dolore di Alice sembrava non rispondere ai trattamenti (...) I membri del team chiedevano: “c’è qualcos’altro che possiamo fare? (...) potevamo solo supporre che il dolore di Alice fosse come quello degli altri pazienti ma sembrava essere una situazione rara. Cosa ci stavamo perdendo? Così un giorno decisi di chiederglielo. “Non abbiamo avuto successo nel trattare il tuo dolore e credo che quel dolore al petto non derivi dal cancro. Ho la sensazione che derivi dal tuo cuore”
Lei mi disse: “Sì, il dolore è nel mio cuore”

Sono una psicologa e ho passato gran parte della mia vita, soprattutto professionale, a dare risposte. A spiegare il funzionamento delle cose, il perché certe cose accadono e il come non farle accadere.
Ho passato gran parte della mia vita a incontrare persone che erano poco consapevoli non tanto della propria difficoltà, quanto di come funzionasse e di come fare per uscirne. 
Quando mio papà è tornato dall'ospedale, con un filo di voce e il corpo debilitato, siamo tutti entrati in apprensione. Come dicevo prima, la domanda che ci balenava nella testa era: e adesso?
Certo, io mi occupo da anni della tematica e sapevo alcune cose. Ma quello era il mio papà e avevo bisogno di una certa dose di vitamine emotive per potermene occupare serenamente. Perché in quel caso ero sì una psicoterapeuta che da tempo si occupa di morte ma ero anche e soprattutto la figlia.
E allora, ad un certo punto, ho deciso di fermarmi: e se avessi concesso a lui di esprimersi per quello che poteva? e se avessi semplicemente ascoltato?

E ho scoperto che lui sapeva molto più di tutti noi.
Sapeva cosa stesse succedendo, nonostante non glielo avessimo ancora detto.
Sapeva di cosa aveva bisogno
 tanto che, il giorno prima di morire, ci ha chiesto, con un filo di voce, di preparargli quell’abito lì. E di farlo scendere da quel letto, che era diventato una gabbia, e fargli fare un ultimo giro. 
Sapeva anche di cosa non aveva bisogno: non voleva bere, non voleva mangiare.
Francesca, una mia carissima amica e collega, una volta mi ha detto: il corpo è il nostro, lo sentiamo.
Ed è proprio vero: lui sapeva ad un livello molto più diretto di quello nostro. E questo ne faceva una sorta di esperto che, nonostante la difficoltà del momento, potevamo ascoltare. 

2. Ho capito che ero in grado di capire ad un livello profondo.

 Siamo nel 1800 e Wilhelm von Osten, professore di matematica in un liceo di Berlino sta insegnando a contare ad Hans, un cavallo. Il più intelligente cavallo di tutti i tempi, a sua detta. In grado di risolvere non solo le 4 operazioni matematiche più conosciute (addizione, sottrazione, moltiplicazione e divisione), ma anche di svolgere operazioni complesse come le radici quadrate.
Lo fa battendo uno zoccolo, tante volte da rappresentare il numero relativo al risultato.


Wilhelm von Osten e il suo cavallo Hans


I due si esibiscono in giro per la Germania (gratuitamente) per mostrare la loro particolare relazione, in grado di generare così tanta intelligenza, fino a che, nel 1904, il consiglio educativo tedesco nomina la Commissione Hans, un gruppo di 13 persone nominate dallo psicologo Carl Stumpf, che aveva il compito di verificare le reali capacità del cavallo.
Ciò che la commissione verificò è che il cavallo rispondeva correttamente quando le domande gli venivano poste dal professor von Osten, o da qualche altra persona, a condizione che fossero vicino a lui. Nel momento in cui il richiedente si allontanava, Hans iniziava a commettere errori.

Ho appena scritto che era mio papà l'esperto tra noi. Che sapeva, sentiva il suo corpo e ci faceva richieste che per noi potevano sembrare anche "assurde" in quel momento (mi ricordo che un giorno voleva togliersi la mascherina dell'ossigeno perché era stanco e diceva di sentirsi bene. Mia mamma si spaventò tantissimo ma io decisi di accordare la richiesta perché in quel momento era importante per lui, nonostante la nostra paura che peggiorasse o che iniziasse ad andare in affanno. La cosa si risolse in pochi secondi, perché subito dopo me la richiese, ma gli avevo concesso di dirci la sua, continuando a trattarlo come un essere umano fino alla fine). 
Ma mi sono accorta anche che, standogli accanto, potevo capirlo profondamente anche io. 
Se torno indietro con la memoria infatti mi ricordo quanto riuscissi ad anticipare le richieste di mio padre. A comprenderlo. E mia mamma, che aveva vissuto una vita intera al suo fianco, era ancora più precisa: “non così, così” mi diceva, mostrandomi il modo in cui mettere il cuscino. E ancora (quando mio papà era già entrato in coma): “Ora lascialo riposare, ha trovato la posizione per lui più comoda”

In parte, dirai, sono facilitata: l'ho sempre fatto di mestiere quello di comprendere profondamente le persone. Eppure non è solo questo. La scienza ci dice che se vediamo siamo in grado di capire l’altro.
Proprio come Hans, anzi molto meglio, siamo in grado di contare (e qui il verbo è usato come accezione di essere importanti per) se vediamo l’altro. 
Si chiama empatia, ed ha la sua sede nei famosi neuroni specchio, scoperti agli inizi degli anni ‘90 dal neuroscienziato Giacomo Rizzolatti e dal suo team.

“Perché è importante la scoperta dei neuroni specchio*?
Perché uno capisce l’altro senza dover fare dei processi logici inferenziali. Lo capisce direttamente, lo capisce subito. Lo capisce come se l’altro fosse sé stesso. (...) Se  vedo una persona che sente del dolore non è che dico “ah poverino quella persona ha del dolore”, ma dentro di me soffro, ho quel dolore. Questo crea effettivamente l’empatia.
Giacomo Rizzolatti -


Il Professor Giacomo Rizzolatti
 
3. Ho capito che, nonostante il senso di colpa sempre dietro l'angolo, potevo fermarmi

Ho imparato accanto ai moribondi a vegliare in silenzio sui dormienti, su chi è in coma, e ho scoperto il piacere di restare lì senza fare nulla, offrendo la mia semplice presenza attenta, come le madri quando vegliano sui piccoli addormentati. Lo psicoanalista W.F. Bion adopera una bella frase per definire questa forma di compagnia, che a suo parere ha un importante effetto calmante, soprattutto per l’angoscia: parla di “fantasie materne”. Non è dato a tutti di poter assumere una sembianza indistinta, di entrare in risonanza affettiva spontanea e immediata con gli altri. Molte persone da me incontrate al capezzale dei moribondi si sentono inutili e a disagio in una situazione del genere: stare semplicemente lì, senza fare nulla. Quando si è abituati a essere efficienti (...) ci vuole molto coraggio personale per riuscire a passare il tempo rimanendo inattivi accanto a un moribondo.”


Marie de Hennezel, autrice di La morte amica

Non è stato semplice per me e la mia famiglia, in quei 4 giorni, fermare la nostra tendenza a fare: il tempo scorre in maniera strana quando sai che sono gli ultimi momenti in cui si può stare insieme ma non sai quando finiranno:  da una parte ne sei grat*, dall’altra soffri perché vedi soffrire. 
Hai sempre la sensazione di non sapere cosa fare ma che ci sarà sicuramente qualcosa che potresti fare (e il senso di colpa ti dice: non lo stai facendo!). 
Non è facile fermarsi, perché se il corpo si ferma arriva come un'onda gigante tutto quello che c'è nel cuore e nella testa.  
Io ho dovuto fare i conti con un'ansia che mi era nuova: la mia mente correva velocissima e viveva nel futuro (come saranno i giorni successivi? cosa dovrò fare subito dopo? come reagirà mia mamma?), il mio stomaco non lasciava entrare neanche una briciola, il mio respiro si alterava spesso. 
Soprattutto di notte, quando vedevo che mio papà si agitava nel sonno: sapevo cosa stesse succedendo ma dovevo comunque gestire la mia tendenza a fare, quando sapevo che non c'era nulla da fare.
Così, ad un certo punto, mi sono arresa.
Mi sono concessa di rendermi conto che ero stanca, che non potevo fare altro, che il processo del morire si può supportare ma se è di un'altra persona, è di un'altra persona (lo so, può sembrare che le mie parole siano dure ma intendo dire che in quel momento ho realizzato che non potevo prendere su di me quello che il suo corpo e la sua mente stavano vivendo. Potevo cercare di illudermi, ma sapevo che non potevo farlo. E allora il mio cuore si è alleggerito, e ho provato a stargli accanto come si fa con un bimbo che sta dormendo e ha la febbre). 

Ho capito che potevo fermarmi, essere semplicemente lì, a vegliare in silenzio e riposare di fianco a lui. E che questo era già di un grande aiuto. Per lui, per me e per i miei cari.

La cosa più difficile della mia vita: la più significativa.

Non ero pronta ad accompagnare mio papà negli ultimi istanti della sua vita e soprattutto non ero pronta per quella domanda diretta:
sto morendo?
Se ci ripenso, so per certo che alcune cose avrei dovuto farle diversamente. Ma la morte arriva in modi inaspettati e ha la stessa complessità della vita.
Ho passato i primi momenti, dopo la sua morte, a ripensare a tutto quello che di sbagliato o imperfetto avevo fatto (se avessi fatto/non fatto, detto/on detto…) e ho notato come la mia mente produceva solo sensi di colpa. E poi ho capito che dovevo lasciare le cose così come erano state: non potevo cambiarle e comunque avevo cercato di fare del mio meglio. 
La mia intenzione era stata quella di stargli accanto e aiutarlo, con le capacità e i mezzi che avevo. 
E questo, sono sicura, lui lo sa.

Accompagnare mio papà è stata la cosa più difficile che abbia fatto ma è stata anche la più profonda, meravigliosa, significativa della mia vita. 


*so che la mia esperienza non è l'esperienza di tutti. Io l'ho vissuta così, magari per qualcuno che legge il mio è stato un accompagnamento semplice (dopotutto mio papà era anziano, era malato etc.) e ci sono situazioni di sicuro più complesse. Lo so, la mia intenzione era quella di dirti che:
- nonostante io sia una psicologa-psicoterapeuta, che da anni studia il fine vita, ho avuto difficoltà e ho fatto errori. Siamo esseri umani, non siamo infallibili. E nella nostra società la morte non è contemplata come qualcosa sulla quale dovremmo essere preparati: quando arriva ci sconvolge. 
- se provi a stare nel dolore e a cambiare prospettiva sul lutto, percependolo non come un problema da risolvere ma come una fisiologica risposta all'amore che provavi per quella persona, allora potrai costruire un futuro a partire da quel passato, e non senza. Nora Mclnerny dice: noi non "andiamo avanti" dal dolore, noi andiamo avanti con il dolore
- gli altri, probabilmente, non ti capiranno: è difficile sapere cosa si vive, a meno di non averlo vissuto a nostra volta. Quindi aspettati che facciano errori e ti irritino (solo per strapparti un sorriso: il giorno in cui mio papà è morto abbiamo avuto tante visite di parenti e amici che sono passati a salutarci. Come ti ho detto io non riuscivo a mangiare, e il mio stomaco si era già chiuso da una settimana, da quando cioè mio papà era stato ospedalizzato. Ero dimagrita velocemente e una nostra parente, mentre mi preparavo per il funerale che sarebbe stato di lì a mezz'ora, mi ha detto: come stai bene, sei dimagrita tanto: sei diventata un figurino!)
- se hai voglia di scrivermi, fallo: io ci sono e mi farebbe piacere conoscerti e conoscere la tua storia perché  credo che chi vive queste esperienze non debba essere lasciato sol*. 

After nasce per non lasciarti sol* nei momenti in cui il dolore, legato alla morte di una persona significativa nella tua vita o una malattia non guaribile, si fa imponente e non sai come affrontarlo. Se ti serve sostegno noi ci siamo. 

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